DA
GENNAIO 2006 ARMA
PIU' EFFICACE CONTRO L'EPATITE C
Cagliari.
Scoperta dell'Università.
Arma
più efficace contro l'epatite C.
Grazie
agli esperimenti effettuati nell'Università di Cagliari, la guerra
contro l'epatite C avrà un'arma più efficace. Una nuova molecola,
che sarebbe in grado di sconfiggere il virus, è stata scoperta dai
ricercatori del Dipartimento di Scienze e tecnologie biomediche in
collaborazione con la Idenix Pharmaceuticals Inc.
Dal gennaio del
prossimo anno il farmaco, la Valopicitabina, entrerà nella fase
sperimentale clinica in Sardegna, dove i malati di epatite sono
50.000. Complessivamente l'investimento dell'industria farmaceutica è
stato di 500 milioni di dollari.
Una quota spetterà anche
all'università cagliaritana.
Medicina/1.
Molecola capace di sconfiggere il virus scoperta dai ricercatori
cagliaritani.
Una
nuova arma contro l'epatite C.
Terapia
più efficace per i malati: in Sardegna sono 50.000.
Una speranza in più per i circa 50 mila pazienti sardi affetti
dall'epatite C, e per gli oltre 170 milioni sparsi nel mondo. Una
speranza dal nome complicato come tutti i farmaci che si rispettino,
Valopicitabina NM283, e che a gennaio 2006 entrerà nella fase
sperimentale clinica, coinvolgendo anche diversi pazienti sardi.
L'importante novità per il mondo della medicina, e per i milioni di
persone che hanno contratto, nelle varie forme, il virus, è stata
illustrata ieri dal binomio che ha coltivato negli anni la scoperta:
l'Università di Cagliari e la società biofarmaceutica Idenix, con
sede a Cambridge nel Massachusetts, e con due sedi anche a Montpellier
in Francia, e a Cagliari, nel polo di Macchiareddu, dove si svolge
attività di screening. Un perfetto esempio di fusione tra ricerca
scientifica, in questo caso portata avanti dall'équipe del professor
Paolo La Colla, del dipartimento di Scienze e tecnologie biomediche
dell'ateneo cagliaritano e mondo dell'imprenditoria, pronto a
investire capitali. Con ricadute occupazionali anche per il territorio
di Cagliari. Il farmaco «Abbiamo tre molecole in fasi avanzate per la
terapia dell'epatite B e C» ha commentato il presidente e
amministratore delegato di Idenix, Jean Pierre Sommadossi. Una di
queste, l'NM283, nata in collaborazione con l'Università di Cagliari,
inizierà la sperimentazione clinica nel 2006. Il farmaco sarà
somministrato su circa mille pazienti che non hanno avuto benefici
dalla terapia standard. Si calcola che ci siano nel mondo circa 170
milioni di persone infettate, e che quasi cento milioni corrano il
rischio di veder progredire la malattia in cirrosi o tumore del
fegato. Le aree scelte per la sperimentazione sono gli Stati Uniti e
l'Europa, e probabilmente il Giappone: «Tra queste ci sarà anche la
Sardegna, vista la presenza di un'importante base operativa», ha
confermato il presidente della società biofarmaceutica. L'obiettivo
è di quelli che fa ben sperare: «Ci auguriamo che oltre il 30 per
cento dei pazienti che assumeranno il farmaco per un anno potranno
eliminare il virus», ha detto Sommadossi. In Italia il tre per cento
della popolazione è affetto da epatite C, media che si riflette anche
in Sardegna: la patologia danneggia lentamente il fegato, fino ad
arrivare ai casi più gravi di cirrosi o tumore epatico. Proprio la
fase iniziale è quella che meglio si addice alla terapia, non
esistendo ancora un vaccino (come nel caso dell'epatite B).
Attualmente una delle terapie più utilizzate è l'iniezione della
proteina interferone, combinata con la ribavirina. I pazienti hanno
notevoli effetti collaterali (depressione, febbre e tremori) e circa
il 50 per cento elimina dal proprio corpo il genotipo 1 del virus C,
quello più difficile da trattare. La sperimentazione sarà avviata su
pazienti affetti proprio dal genotipo 1, e durerà 48 settimane: un
gruppo sarà sottoposto a somministrazione del farmaco NM283 e un
altro seguirà la terapia standard. La Velopicitabina agisce nel corpo
del paziente, bloccando la proteina polimerasi, che il virus utilizza
per replicarsi. «Se dovessero arrivare notizie positive dal nostro
farmaco, ci aspettiamo che le autorità sanitarie americane ne
consentano una rapida approvazione», ha auspicato Sommadossi. Sul
progetto lavora da cinque anni il laboratorio cooperativo Idenix e l'Università di Cagliari,
diretta da Paolo La Colla: «Una
collaborazione che ha dato i suoi frutti» ha spiegato il professore
dell'ateneo cagliaritano. «La ricerca è importante se seguita
dall'applicazione. Altrimenti se resta pura conoscenza non serve a
molto». La Colla ha seguito le orme di quello che è stato il suo
maestro, Bernardo Loddo, tra i pionieri nella virologia: «I suoi
insegnamenti non sono stati vani» ha sottolineato il preside di
Medicina, Gavino Faa. «Spesso l'Università di Cagliari ha visto
importanti scoperte, come la prima endoscopia fatta negli anni 60,
non brevettate, e fatte proprie da altri poli scientifici dell'estero.
Questa volta gli effetti positivi si registreranno anche nel nostro
territorio». Ricadute per la Sardegna «Non tutti i laureati e i
dottorandi possono entrare nel mondo dell'Università come ricercatori» ha sottolineato il rettore Pasquale Mistretta.«
Questo è un
esempio di come si possano avere sbocchi occupazionali dall'incontro
tra ateneo e imprese». Lo stesso Sommadossi ha anticipato il
potenziamento della struttura cagliaritana che passerà, nel 2006,
dagli attuali 15 ricercatori, a 20, «con un'ulteriore crescita nei
prossimi anni». Uniti ai 15 ricercatori stipendiati dall'Università,
alla fine si ottiene un'attività di ricerca che dà lavoro a 30
studiosi. L'investimento per il farmaco, per la sola fase di
sperimentazione clinica, da parte della Idenix, è stato di 500
milioni di dollari. Anche il ritorno economico, una volta che il
farmaco diventerà commercializzabile, sarà elevato e l'Università
avrà la sua parte: «Non è ancora stata ufficializzata la
percentuale di Cagliari, per la partecipazione nella
commercializzazione», ha precisato il presidente di Idenix. «Meglio
l'un per cento di molto, piuttosto che il dieci per cento di poco»,
ha detto La Colla e inoltre resterà la grande soddisfazione di poter
vedere un farmaco, nato dalla ricerca svolta nell'ateneo cagliaritano,
diventare una speranza per i milioni di pazienti affetti da epatite C
nel mondo.
Matteo Vercelli.
Medicina/2.
L'orgoglio del rettore Mistretta per la terza scoperta in pochi mesi.
«Un'altra
prova di eccellenza dell'Ateneo»
Professor Mistretta: due mesi fa il reagente che permette di estrarre l'oro dai
computer vecchi, poi il superconduttore per esperimenti in assenza di
gravità, ora addirittura il farmaco contro l'epatite C. L'Università
di Cagliari ha deciso di stupire il mondo? «Effettivamente in questo
periodo stiamo raccogliendo grossi risultati. Sono i frutti di un
lavoro d'équipe che non nasce per caso: c'è dietro l'eccellente
apporto delle scuole universitarie ed è la dimostrazione che nella
ricerca non siamo secondi a nessuno: altrimenti gli americani non
verrebbero a proporci, come nel caso di quest'ultima ricerca, di
collaborare». In questo caso, significa co-finanziare? «Certo, perché
la ricerca ha dimostrato di funzionare anche a livello aziendale.
L'altro giorno, a un meeting del Cnr, il nostro Luca Pani è stato
chiamato a relazionare sulla Farmanes come esempio di società
farmacologica ad alta produttività. L'industria si sta accorgendo
che la sintesi fra pubblico e privato è la soluzione ideale». Perché?
«Perché i ricercatori, in molti casi, sono persone già strutturate
nell'università. Oppure sono dei giovani che lavorano con grandissimo
entusiasmo». Precari. «Ma perché? Se sanno farsi valere, trovano
delle possibilità. Magari in piccole aziende, in situazioni di spin
off». Come si traduce spin off? «È un termine tecnico che designa
un innesco operativo di aiuto e slancio per le imprese». Ma la
ricerca è uno dei settori più in crisi, in quest'Italia in crisi. O
no? «Intanto i ricercatori sardi stanno superando il Tirreno, inteso
come barriera psicologica. Sono molto apprezzati all'estero, anche
negli Usa: penso alla professoressa Farci, per esempio. Certo il
problema c'è. Ma noi, a Cagliari, tra dottorati e assegni e borse di
studio siamo in grado di tenere un giovane per sette anni, in qualche
caso anche per dieci». E poi? «Poi è vero, la selezione per entrare
è durissima. Per un posto si presentano in dieci». E i nove che
restano fuori? «Devono cercare altrove. E se hanno capacità,
intelligenza, pazienza e disponibilità allo spostamento, trovano».
Cervelli in fuga? «Se ne allevano molti, di cervelli, non è fuga.
Possiamo permetterci di offrire formazione di qualità ad altri: per
esempio ai paesi del Nordafrica. Se ministero e Regione fanno la loro
parte, si può fare molto».
Marco Noce.
Fonte: ANSA
(25/06/05).
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